L'AltraSersale

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Da La Masnada n.96:

Referendum e democrazia

In Italia succede ogni giorno qualcosa, ma si tratta sempre del superamento del limite della decenza toccato la settimana scorsa. Anestetizzati dal grande fratello che trasforma incessantemente la realtà, il 12 e 13 giugno i cittadini hanno invece avuto un sussulto di coscienza e usando il voto come un’arma, forse l’ultima, per punire una classe dirigente politica ed imprenditoriale altrimenti inclassificabile. La dove il pubblico è sinonimo di inefficienza e il privato di lucro impunito e irresponsabile, sembra sgomitare una nuova idea di sociale.
“La democrazia della moltitudine è possibile solo nella misura in cui tutti partecipano del comune” – dicono Michael Hardt e Toni Negri in “Oltre il pubblico e il privato. Comune.” (2010). Filosofia, certo. Ma quando in TV ho sentito che “gli italiani hanno votato su qualcosa che va oltre la politica, che investe il loro quotidiano, perché si tratta di beni comuni” ho compreso cosa intendessero Hardt e Negri.
In “Comune” si riflette sul potenziale di trasformazione che i beni comuni esprimono attraverso la soggettività biopolitica della moltitudine – ovvero quella rete di relazioni, prodotto della tensione tra esigenze del capitale e istanze di liberazione. Al referendum gli italiani, come una moltitudine indistinta, si sono espressi esattamente sui beni comuni.
Perché beni comuni? Sul posto di lavoro, nei rapporti sociali, nelle migrazioni, si creano e ricreano conflitti tra aspirazioni della moltitudine e necessità del capitale: Hardt e Negri hanno rintracciato nei beni comuni e nelle relazioni sociali che su essi si costruiscono il fulcro della lotta biopolitica del XXI secolo. La loro disponibilità certifica la qualità delle nostre esistenze; la lotta per la loro difesa diventa dinamica sociale.
Le forme di lavoro subalterne e precarie non solo espropriano valore mediante sfruttamento, limitano soprattutto la creatività e la soggettività del lavoratore; la mercificazione dei beni comuni non nasconde soltanto la remunerazione di un investimento ma rivela la sottrazione di sostanza vitale agli esseri umani; i sistemi di controllo e repressione disegnati dalla legge non tutelano la supremazia di uno su tanti, ma demarcano la compressione dello spazio sociale degli individui. Capitale e sociale necessitano entrambi del comune per riprodursi: in ciò risiede la connessione intima tra comune e soggettività. Perciò Hardt e Negri argomentano che la moltitudine, in virtù del suo rapporto biopolitico col comune, può diventare soggetto di trasformazione sociale. Ecco perché la partecipazione dei singoli al comune è indicatore di democrazia sostanziale.
Al referendum abbiamo sentito il sussulto della moltitudine, proprio perché in gioco c’erano diritti presenti e possibilità future: casalinghe, lavoratori, studenti, associazioni, movimenti, in modo trasversale e oltre i colori di partito, hanno percepito che si giocava sui beni comuni.
Un sussulto tradotto in intelligente strategia comunicativa: non negazioni pregiudiziali, ma 4 Si per l’acqua, per le energie alternative, per l’uguaglianza. La condivisione di un’idea diversa da quella delle classi dominanti che invece preferivano il profitto sui diritti e sulla salute. Basta guardare il dato del 2° quesito, il più votato, per capire il messaggio lanciato dalla moltitudine: fuori i profitti dall’acqua. E di lì l’idea che l’acqua e i servizi locali debbano essere gestiti per conto dei cittadini e non in funzione dei bilanci, che il nucleare è non solo pericoloso, ma di gran lunga meno competitivo delle rinnovabili, e poi il principio intangibile dell’uguaglianza.
Gli indicatori che questa è una vittoria della moltitudine sono i milioni di post su facebook, le migliaia di volantinatori in piazza, i comitati referendari di quartiere, il passaparola delle casalinghe.
In modo inconsapevole la partecipazione si è fatta democrazia.



Antonio Borelli

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