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Da la_Masnada_093:

Punk capitalism

Disegno di Domenico Iervasi.
A fine agosto parecchi lettori sono stati scioccati dalla notizia che i Sex Pistols stavano per mettere in commercio il Profumo dell'anarchia, una linea di profumi e altri gadget che secondo la Live Nation, proprietaria di parte dei diritti, dovrebbe avvicinare nuovi fan al gruppo e al punk (!!!). Su internet è partito un buzz (ronzio) ampiamente critico sulle scelte di marketing che insozzano una delle icone punk: alcuni hanno criticato fino a dire che i Pistols non sono mai stati realmente anarchici, “La più grande truffa del rock'n'roll”. Il No Future di Rotten&co. sembra aver assunto le sembianze di un Future alla borsa americana, lasciando un'intera generazione con l'interrogativo “Che ne è del punk?”.
La più dirompente rivoluzione degli ultimi 50 anni,il punk, ridotto a feticcio consumistico? Il pessimismo sembrerebbe d'obbligo.
Eppure se uno va a leggere Punk Capitalism. Come e perché la pirateria genera innovazione (Feltrinelli, 2008) si fa un'altra idea. Matt Mason, il dj autore del libro, ricostruisce in modo originale l'evoluzione delle subculture che hanno scosso alle fondamenta l'organizzazione economica mondiale, spiegando quanto e come le dinamiche culturali possano influire sui consumi della gente, e arriva a formulare il cosiddetto "Dilemma del pirata", consegnandoci un barlume di speranza nel cambiamento.
Indagando nell'insana dinamica che il capitalismo assume – e cioè la fagocitazione delle risorse, l'appiattimento
delle differenze, la distruzione per il profitto – Mason sostiene che il punk è alla base di una rivoluzione culturale in grado di sovvertire le vecchie logiche del mercato: omologazione dei gusti, imposizione dall'alto degli stili. Il messaggio filosofico, quel Do it yourself (fai tutto da te), ha liberato tanta di quella forza creativa da spingere gli attori economici sulla difensiva: ognuno è diverso, la cultura nasce nell'underground. E in effetti i Sex Pistols ci hanno insegnato che si può diventare rock band anche senza saper suonare; mentre Richard Hell lanciava la famosa pettinatura a cresta e i vestiti stracciati e borchiati per dire che “Si poteva usare il proprio aspetto per comunicare un sacco di cose: interviste, copertine, look e concerti... c'erano tanti modi di far passare il messaggio [...] l'importante è essere inclassificabili, così non appartieni a nessuno”.
Da allora niente è stato più di consumo massificato, tutto veniva prodotto e riprodotto secondo i propri gusti. E la rivoluzione del punk si è diffusa.
Gli informatici dell'open source, ad esempio, lasciano libero il codice dei loro programmi perché gli ritorni migliorato e aggiornato o per condividerne i contenuti. Chi non accetta di appartenere a qualcosa, di sottostare alle regole imposte dagli altri, crea e ricrea i suoi beni di consumo: il modo di vestire, di ascoltare e produrre musica, arte.
A queste dinamiche le multinazionali oppongono la legge del copyright, ovvero il possesso dell'idea alla base del prodotto, la più grande rapina che il profitto possa operare al genere umano: le idee non si possono brevettare, perché in questo modo diventano inaccessibili a chi intende migliorarle; è come se si chiedesse a Dante di scrivere la Divina Commedia senza poter leggere tutti i classici.
Da qui il dilemma illuminante di Matt Mason: se le multinazionali si oppongono alla creatività pirata delle tendenze perdono, poiché ci sarà sempre un movimento antisistema a forzare le leggi del profitto; se cercano di emulare la pirateria devono possedere lo stesso appeal culturale della creazione pirata. Se ci riescono devono rinunciare a guadagni enormi! Altrimenti come competere con ildownload gratuito?!
Per cui, come direbbe Joe Strummer, “The future is unwritten”, Il futuro non è scritto.

Antonio Borelli

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