L'AltraSersale

Un nuovo modo di essere comunità. Un mondo nuovo.

Dopo i tripudi tricolori, i moniti e le puntualizzazioni di Napolitano, i fischi ai rappresentati del Governo e la vergogna per gli sfregi istituzionali dei leghisti (se non si sentono italiani possono anche abbandonare le prebende dei posti che occupano), dopo questo sentimento nazionalistico, feticcio di un crollo di valori generalizzato, urge una riflessione su questa Italia.

 

Basterebbe la celebre canzone di Giorgio Gaber, "Io non mi sento italiano", per dire tutto di questa Italia ridotta a brandelli: divorata da imprenditori pescecani, da politici affaristi (che poi sono gli stessi che vogliono il nucleare), tenuta in vita dall'economia criminale della 'ndrangheta, vessata dai suoi stessi difensori, dilaniata da ideologie barbare e incivili.

 

Eppure ci rivolgiamo a colui che ci ha insegnato a ragionare. Antonio Gramsci, nel 1920 scriveva sull'Ordine Nuovo:

“Lo stato italiano è stato una dittatura feroce, che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti”

 

In questa frase è sintetizzata non solo la triste storia del meridione, il riconoscimento della Questione Meridionale, ma addirittura Gramsci individua il dna di una nazione votata al massacro politico, economico e culturale del suo popolo.

 

Il Risorgimento non fu affatto "una rivoluzione di popolo", ma un'impresa coloniale del regno sabaudo per avere risorse fresche da inserire nel proprio apparato produttivo. La spedizione dei 1000, seppure animata dagli ideali di cambiamento portati dai mazziniani e dallo stesso Garibaldi, fu ampiamente utilizzata dai Savoia per annettere un territorio che, nonostante le sue contraddizioni interne, aveva una certa ricchezza.

Il regno borbonico deteneva infatti la seconda flotta del Mediterraneo, il quarto gruppo bancario europeo (Banco di Napoli), eccellenze industriali e produttive (il primo tratto della ferrovia italiana), l'indiscussa capitale culturale d'Europa (Napoli). Queste eccellenze convivevano con una condizione contadina pesantissima, quasi feudali, e perciò la spedizione dei 1000 aveva rappresentato una promessa di riforma agraria e di liberazione dei contadini dai latifondisti.

 

In realtà l'unificazione rappresentò una frustrazione delle speranze. Alla dittatura 'socialisteggiante' di Garibaldi si sostituì uno stato unitario accentratore e rapace. Una memorabile alleanza tra industriali settentrionali e proprietari terrieri meridionali, i cui rappresentanti sedevano al governo unitario, spinsero le disastrose politiche postunitarie: innanzitutto il latifondo fu difeso, il tesoro del banco di Napoli requisito come bottino di guerra dai piemontesi, le industrie del regno smontate e ricostruite al nord per sostenerne l'industrializzazione, al sud fu imposta la chiusura delle scuole per 15 anni. In queste condizioni le classi operaie si ritrovarono senza lavoro, senza diritti e in uno stato di dominio coloniale: le resistenze, quelle che passarono sotto il nome di brigantaggio, furono represse dallo stato d'assedio dell'esercito; i cittadini controllati e gestiti da una nuova classe dirigente fatti di dirittuni e guappi che sono i degni genitori di 'ndrine e politici incompetenti.

 

In questo breve ritratto si nasconde il vero problema italiano: la questione meridionale. Una questione che in realtà può essere descritta come il dominio autoritario di una classe, quella borghese-imprenditoriale, su un'altra, quella contadino-operaia. L'interesse di pochi e il profitto fu imposto come obiettivo nazionale e il prezzo fu fatto pagare ai tanti con la miseria, la repressione, lo sfruttamento in fabbrica, la leva obbligatoria per le avventure coloniali, l'emigrazione.

Condizioni e interessi, dinamiche e alleanze di potere che gettarono le basi di quello che fu il dramma della storia italiana: il fascismo. La marcia su Roma fu la conclusione di una lunga stagione di agitazioni popolari e operaie per il conseguimento di migliori condizioni lavorative e sociali; padroni e borghesi scelsero la strada dell'autoritarismo per il controllo delle masse subalterne.

 

Nell'unificazione dell'Italia nasce quindi il vulnus principale della storia italiana: uno stato senza cittadini. 

Uno stato nel quale i diritti politici dei cittadini rappresentano le loro condizioni economico-sociali. La costante minaccia della disoccupazione, dello sfruttamento, del controllo e dello scambio elettorale ha ridotto il potenziale di cittadinanza e di partecipazione. Solo nel 1948 il suffraggio fu esteso a tutti e l'effetto lungo di quella stagione, nata invece su una vera rivolta di popolo come la Resistenza, furono una serie di conquiste inimmagginabili: l'alfabetizzazione, il diritto alla salute, gli statuti dei lavoratori.

Quando queste conquiste sono apparse intollerabili ai padroni, e cioè a partire dalla fine degli anni '60-'70, lo Stato ritorna ad essere difensore dell'interesse di pochi a danno dei molti. Ritorna ad essere autoritario.

 

Se riusciamo a cogliere questo tratto della nostra storia, possiamo costruire il nostro futuro.

 

 

PS: anche noi abbiamo esposto il tricolore davanti alla nostra sezione, ma per una sola ragione: quella bandiera è metafora dell'unità del popolo italiano.

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