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Vista con gli occhi della mia gomma da cancellare Berlino è una bella cittá

Pubblichiamo qui di seguito, dal blog di Stefano Vastano, corrispondente La Repubblica/L'Espresso da Berlino, un pezzo dedicato alla caduta del muro

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Sono volati in un soffio 20 anni dalla meravigliosa sera in cui, all’improvviso, è crollato il Muro.

Lo si chiama ancora così, “Die Mauer”, ma impropriamente visto che si trattava d’un sistema altamente complesso di fortificazione. La sua “buccia” erano i tre metri di cemento che conosciamo. Ma all’interno c’erano inferriate e cavi elettrici, telecamere e filo spinato a separare, attraverso la cosiddetta “striscia della morte”, 16 milioni di tedeschi dell’est – anche detti “Ossi” se non “Zoni” – dai 60 milioni di connazionali dall’altra parte del Muro.


E’ toccato ad uno storico inglese, Friedrick Tailor, scrivere la migliore storia (”The Berlin Wall”, Bloombsbury, 2006) dello sfregio di cemento che dal 13 agosto 1961 al 9 novembre 1989 ha spaccato in due Berlino, le due Germanie e il mondo intiero nei due Blocchi Usa-Urss. Reinquadrato nella geografia manichea delle due ex-Superpotenze, è evidente come i primi pezzi di Muro sian stati innalzati molto prima della rovente estate del ‘61: risalgono in realtá alla fine del conflitto mondiale e fan parte di quei tre elementi che dal 7 ottobre 1949 (nascita della Ddr ) all’89 han contrassegnato i 40 anni di Guerra fredda. Ossia la folle corsa, a est come ad ovest, agli armamenti; il pazzesco equilibrio sul deterrente nucleare; e quegli sciagurati chilometri e chilometri (140 per l’esattezza) di cemento armato che rinchiudevano Berlino-ovest entro il cosiddetto «Stato dei contadini e dei lavoratori». La Deutsche Demokratische Republik, ultimo avamposto del sistema sovietico in Occidente.

«Perlomeno ci abbiamo provato ed è durato quattro decenni buoni», così il 7 ottobre scorso, dal suo esilio cileno, ha commentato Margot Honecker, la cinica First Lady della Ddr rimpiangendo il Muro, e quel fallimentare esperimento su terra prussiana.

L’incredibile in questa storia dei due sistemi mondiali, delle loro armi e Lager, ideologie e fortini, è che sino a 24 ore o a 60 minuti prima dell’apertura dei cancelli sulla Bornholmer Strasse – il primo passaggio spalancatosi fra le due Berlino – nessuno al mondo, né a Berlino-est né a Bonn e nemmeno a Mosca, Londra o Parigi avrebbe mai potuto immaginarsi che il Colosso di cemento, Die Mauer, sarebbe crollato così. Come un fungo marcio o un recinto di burro; senza sparare un solo colpo di cannone o di pistola e, grazie a dio, senza richiedere – come nel sanguinolento copione d’ogni evento epocale – il sacrificio d’una sola vita umana. 28 lunghi anni di Muro, 4 interi decenni di Rdt e di nevrastenica Guerra Fredda sgretolarsi come in sogno e travolti in una notte da una magica, sofficissima “rivoluzione di velluto”…

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Oggi gli storici, anche una brava ricercatrice italiana quale Paola Rosá nel suo saggio “Lipsia 1989 (ediz. Il Margine) , si chiedono se sia montato davvero a Berlino e non più in là, a partire da Lipsia, quel magico tsunami della “rivoluzione soft”.

Il settimanale “Der Spiegel” ha ricordato ai lettori che l’epicentro dell’89 non si trovava nemmeno in Germania ma fra la rivolta di Solidarnosc e degli ungheresi, fu un regalo dei ribelli dell’Europa dell’est ai tedeschi.

Anche se poi la fonte di tutto lo scossone è localizzabile molto al di là dell’Europa centrale e dell’est, e ancora piú giù nella storia, ossia in quel cruento 1979: è da lì che lo storico Michael Stürmer è ripartito per ricordarci – nel suo saggio “Welt ohne Weltordnung” (Murmann 2006) – che senza l’invasione sovietica in Afghanistan mai e poi mai sarebbe crollato dieci anni dopo, e col beneplacito «del traditore Gorbaciov», come lo chiamava Egon Krenz, ultissimo dei satrapi della Ddr, quel Muro al centro di Berlino.

La storia quindi, anche del Muro, è un gomitolo ingarbugliato; di cui oggi però intravediamo sbrogliarsi almeno due capi. Il primo filo è quello che, dal crollo a Berlino, conduce a quel fenomeno ormai quotidiano e così capillare che chiamiamo “globalizzazione”. E l’altro è che mai un evento così rivoluzionario e carico di conseguenze mondiali (altro che “Fine della storia” allora prevista da F. Fukuyama!) s’é realizzato in modo così imprevisto e pacifico. Anzi, a causa di un “Irrtum”, un errore, come titolava il 2 novembre la copertina di quel settimanale amburghese: sì, il Muro è venuto giù per “sbaglio”, un fraintendimento nel marcio apparato dei vecchi Bonzi della Ddr.

E’ così che la Storia, specie quella con la S maiuscola, si produce: per piccoli equivoci senza importanza…

Forse è per questo che ancora oggi lo sport preferito dei berlinesi è di chiedersi e riraccontarsi, ad ogni anniversario del Muro: «E tu dov’eri quella sera lì?».

Di recente ho girato la domanda a due scrittori, le penne più conosciute nelle rispettive “zone” della capitale: Peter Schneider, ex-sessantottino di Berlino-ovest; ed Ingo Schulze, lo scrittore dei nuovi quartieri (tanto alla moda) di Berlino-est.

«Quella sera», dice Schneider, «ero negli Usa; e quando qualcuno mi ha avvertito del crollo del Muro ho subito pensato: poverino, è diventato matto!». Schulze si ricorda che «quella sera ero nella mia città di Altenburg, e la mattina alzandomi non ho trovato più il Muro. La prima reazione fu: ecco, ora se ne vanno tutti all’Ovest e non resta più nessuno a protestare contro la Ddr!».

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Chi scrive queste righe invece, la fatidica sera del 9 novembre si trovava a stirarsi due camicie (sic!) abbacinato dai programmi che esalavano dalla tivù della morente Ddr. Nella mia vita di telespettatore non ricordo d’aver sorbito trasmissioni così soporifere come quelle in onda sulla tivù di Honecker! Stava franando in quel preciso momento il suo Sistema, il socialismo scientifico alla tedesca insieme alla sua vita di Bonzo comunista venuto dalla provinciale Saarbrücken, ma dalla Torre della sua tivù, dal Fungo spaziale sulla Alexander Platz, trasmettevano imperterriti bucolici documentari sui canarini, la flora e la fauna delle Baleari!

Non c’é nulla di più tipico nelle moderne dittature del bizzarro cocktail di furiosa propaganda e banalissimi filmucci e documentari con cui i regimi totalitari infarciscono i palinsesti delle loro Tv, cinema e teatri. Questa – un mix dolciastro d’ideologia e Kitsch – è stata la malefica ricetta mediatica versata ai tedeschi sia nei 40 anni di Ddr che nei programmi e film (che non per niente piacciono tanto a quel cinico di Quentin Tarantino!) dei 12 anni di nazismo.

Storici, politici ed intellettuali disputano ora alacramente in Germania sulla peregrina questione se la Ddr fu una dittatura tanto pessima quanto, o paragonabile agli orrori raggiunti dal Terzo Reich. Una saliente differenza fra le due dittature spuntate sul suolo tedesco nel 20° secolo è senza dubbio misurabile attraverso il numero degli spioni sguinzagliati dai due regimi: la Gestapo riuscì ad esser altamente efficace servendosi in Germania di molto meno agenti della Stasi. Nel minuscolo reame di Berlino-est infatti la quantitá di agenti ed “informanti”(cioé collaboratori) al soldo della Stasi era notevolmente maggiore che all’epoca nazista. Il che la dice lunga, di converso, sul denso consenso sociale stabilito dal partito nazionalsocialista fra il 1933 ed il ‚45; ed anche sullo stato di assoluto terrore diffuso, con altri mezzi, servizi e Lager, dagli sgherri di Hitler.

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A proposito del fatale intreccio fra intellettuali e regimi, letteratura e politica tedesca, parrá strano, ma a sino ad oggi non è ancora stato scritto il romanzo per eccellenza che racconti in modo davvero avvincente la drammatica storia del Muro. Nelle sale cinematografiche invece sì, da commediole come “Good Bye Lenin” al dramma “La vita degli altri”, l’angosciante, asfittica, e tragicomica vita nella cappa dell’ex-Ddr, con quelle macchinette di cartone chiamate Trabant (manco fossero pianeti per volare oltre il Muro), é trapelata.

In letteratura ci hanno provato e riprovato in tanti a raccontare il sistema oltre il Muro , ma persino un grande scrittore come Günter Grass – che ha dedicato alla faccenda addirittura due opere (”Il richiamo dell’ulolone” e il monumentale romanzo “Ein weites Feld” ) non è riuscito a consegnare ai tedeschi l’Epos nazionale sinora mancante.

Ho avuto di recente il piacere d’incontrare il grande scrittore socialdemocratico – arzillo come un grillononostante i suoi 82 anni – seguendolo in campagna elettorale per le primarie del 27 settembre. Da Halle, un tempo culla della socialdemocrazia e cuore industriale della Germania prenazista, sino a Dresda l’autore del „Tamburo di latta“ la sbatteva egregiamente la grancassa per la sua Spd. Ribadendo ogni sera in teatri e comizi diversi le stesse tesi giá annotate nel suo taccuino (ora pubblicato col titolo “In cammino per la Germania“) dell’eroico periodo ‘ 89-’90. No, secondo lui, l’unità delle due Germanie non s’è mai verificata; l’est del paese, a sentire Grass, è stato «comprato e a buon prezzo» dai manager dell’ovest; e il vero, originario peccato l’ha commesso il fraudolento Helmut Kohl e la sua Cdu, che «hanno annesso all’ovest e senza una nuova costituzione le 5 regioni dell’est». Parole del premio Nobel (anno 1999).

Si stava forse meglio, nelle due Germanie, quando si stava peggio?

Ed è davvero il caso di chiedersi – come Margot dall’esilio cileno – se quella di suo marito Honecker fosse o no una dittatura?

A scanso equivoci l’ho chiesto anche ai nostri due scrittori berlinesi. Che ovviamente rispondono dai loro distinti punti di vista, da Berlino ovest e Berlino est, alla questione.

«Se è per questo anche il Terzo Reich», attacca Peter Schneider, «ha costruito autostrade e dato lavoro e vacanze a tutti! Quindi persino nella Ddr ci doveva esser qualcosa di buono: ma a che prezzo!», prosegue l’autore del “Saltatore del Muro” (pubblicato nel 1982; lo stesso anno in cui un certo Kohl, storico di professione, sale al potere, per restarci 16 anni di fila). E conclude Schneider: «Il lavaggio del cervello, l’educazione militare sin dai banchi di scuola era il minimo che bisognava pagare in quel sistema».

Ingo Schulze invece concorda col fatto che la Ddr «fosse una dittatura». Ma, tiene a specificare lui, «una dittatura che ha avuto l’incontestabile merito di lasciarsi abbattere senza spargere sangue».

Tra l’orrore senza fine della battaglia per Berlino, nel ‘45, e la fine istantanea del Muro, in una notte dell’89, in effetti la differenza è notevole. E poi, conclude Schulze: «Sono stato sorvegliato due volte dai servizi segreti, e la mia opinione è che così intelligenti ed onnipotenti gli spioni di Honecker non fossero».

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Per quel pochissimo che mi riguarda – ho fatto in tempo ad assistere solo agli ultimi tre mesi di vita della Ddr – posso testimoniare quanto segue:

a) nei volti, movimenti e stile di vita dei cittadini della Ddr l’angoscia – con o senza Trabant, a Berlino-est, Lipsia o Dresda – si tagliava a a fette;

b) l’impossibilitá di viaggiare e l’inesistenza di un libero mercato (i negozi e ristoranti della Ddr, di una tristezza inenarrabile) portavano la gente a chiudersi in risacche di silenzio, fra pile di libri (ammessi dalla censura!) per affogare in un mare di reciproca diffidenza: «societá-nicchia», così é stata definita l’ex-Ddr;

c) ecco l’aureo consiglio dato da Herlind Knauser, la mamma di Angie, alla futura Cancelliera al suo ingresso in liceo: «Angela, attenta con chi parli!». La “buccia”’ dello Stato dei contadini e lavoratori era di cemento; ma una cortina di gelido silenzio e di sfiducia ne copriva all’interno non solo”le vite degli altri”, ma tutte le relazioni sociali e personali.

Per questo mi ha sempre colpito il modo con cui buona parte della sinistra e dell’intellighentja tedesca, non solo uno scrittore della Spd come Günter Grass, hanno reagito al crollo del Muro e alla seguente riunificazione nazionale: con entusiasmo-zero; del pessimismo e una forte dose di riluttanza.

Sono questi sentimenti negativi all’epoca molto diffusi nell’entourage della Spd ma anche dei Verdi, che spiegano perché, sino ad oggi, questi partiti non abbiano attecchito all’est. E come mai le prime due elezioni nazionali le abbia spuntate il cancelliere Helmut Kohl, non a caso percepito ancora oggi come il “Kanzler dell’unitá tedesca“. O il Papà dei tedeschi (Die Mutter, la mamma, essendo intanto diventata Angie…).

L’amarezza che una figura come Willy Brandt, l’ultimo dei socialdemocratici dotato di vero carisma, nutriva per i suoi tre cosiddetti “nipotini” – Scharping, Schröder e Lafontaine – ha a che fare col loro crudo riserbo nei confronti della ritrovata unità. D’altronde, tutti e tre questi presidenti della Spd anni ‘90 son cresciuti nel boom economico della Germania-ovest del dopoguerra, sulla scia di proteste del ‘68 e all’ombra della minuscola Bonn capitale (renana) della Repubblica Federale. Quindi, a differenza di Brandt e della sua generazione, sospettosi nei confronti d’ogni rigurgito di nazionalismo ed immuni ad ogni entusiasmo patriottico.

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Paradossalmente, ma non tanto, anche a Parigi e Londra, sia la l’algida Thatcher che il tenebroso Mitterrand nutrivano le stesse riserve dei 3 Nipotini di Brandt nei confronti della riunificazione tanto voluta da Helmut Kohl. Per non parlare delle più o meno ancestrali paure avvertite sia a Londra che Parigi alla sola idea di un Transfert della Hauptstadt dalla provinciale Bonn all’abnorme Berlino: un’angoscia (anche in senso freudiano) quella Germania riunita, con Berlino di nuovo capitale e di 82 milioni di tedeschi…

Gli ultimi due decenni di vita politica e culturale hanno ampiamente mostrato quanto queste angosce, e le varie germanofobie ed i pregiudizi (tuttora?) circolanti nei confronti dei tedeschi siano infondati. Oggi non ci sono dubbi sul fatto che la nuova Repubblica di Berlino sia una delle più solide e trasparenti realtá democratiche sul Vecchio Continente: e nulla illustra meglio la nuova lealtá e vitalitá repubblicana di Berlino quanto la cupola che Sir Norman Foster ha innalzato sul vecchio Bundestag dedicato «al popolo tedesco».

Ai tempi del Muro invece e della Ddr, Berlino è stata la capitale di un altro, ma pur sempre sistematico terrore quotidiano. Ecco un paio di flash di vita quotidiana dalla Berlino-est (e dintorni) nell’era Honecker:

1) ho visitato la centrale sulla Hohenschönhausen Strasse quando l’edificio kafkiano era ancora fresco di Stasi e dei suoi mentecatti sistemi di controllo. Oggi il complesso è trasformato in museo e vale senz’altro una visita. Nei primi del ‘90 mi sono trovato nel cosiddetto Bunker ove venivano conservati i vasi sotto-vetro con le “prove-odore” dei cittadini sorvegliati. «I cani-lupo», ha scritto lo storico Wolfgang Wippermann, «sono sempre stati la passione prediletta sia degli agenti della Gestapo che della Stasi». E quegli straccetti gialli con l’odore del cittadino pedinato erano il massimo dell’abiezione in un sistema che aveva fatto della denuncia e sfiducia il nocciolo dello Stato (a prova di cane);

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2) il carcere politico della Ddr era in una bella cittadina sassone: Bautzen, la cittá delle sette torri, oggi gioiellino turistico, ribattezzata al tempi di Honecker “Gelbe Elend” (miseria gialla) dai colori dei mattoni del carcere speciale della Ddr. Mi colpirono le celle d’isolamento: minuscole, senza vetri e soprattutto senza termosifoni. E ubicate nei pressi della “sala-gioco” degli altri, normali detenuti. La perfidia dei tavoli da ping-pong vicino al tunnel degli isolati: una scena degna del miglior M. Forman; e la ddr una sorta di gigantesco “nido del cuculo”;

3) Altra amara follia della Ddr il destino di Weimar, la città che fu di Goethe, Schiller ed Herder e che oggi è la perla del turismo dei nuovi Länder. Anche i bonzi della ddr, che si sentivano i tedeschi migliori perché si reputavano antifascisti puri, pretendevano d’essere gli autentici eredi dell’umanesimo dei Classici di Weimar (e ci tennero a dimostrarlo durante l’imbarazzante visita di Thomas Mann a Weimar). Durante i festeggiamenti per Weimar capitale della cultura europea ho visitato la fantastica Villa Silberblick, ove il povero Nietzsche in stato di demenza totale passò sino alla sua morte nell’agosto del 1900 i suoi ultimi giorni. I nazisti avevano pianificato a Weimar un orrido “mausoleo del Superuomo” in onore del filosofo di Zaratustra; ma oltre al disumano orrore del vicino Lager di Buchenwald non andarono.

I bonzi della Rdt invece si limitarono ad occultare che, subito dopo i nazisti, furono i generali dell’Armata Rossa a prendere in gestione e servirsi del Lager di Buchenwald.

Calando un muro di omertà su vita e pensiero di Nietzsche: per tutti e 40 gli anni del regime non una sola pagina nicciana vide la luce nell’editoria comunista di Berlino-est (e se non fosse stato per l’impegno di G. Colli e M. Montinari, ospiti per grazia ricevuta da Honecker a Villa Silberblick, oggi sede del Nietzsche-Archiv, non esisterebbe al mondo un’edizione critica del filosofo).

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Novanta anni esatti dopo la morte di Nietzsche, nel 1990, cominciano sul martoriato corpo di Berlino, sfregiato e vilipeso da ogni peggiore «-ismo » del 20° secolo, i frenetici lavori di ricostruzione e maquillage per la metropoli sulla Sprea. Il regista che tanto l’ha resa famosa espresse subito i suoi dubbi sulla miriade di cantieri aperti da tante Star dell’archittetura internazionale. Vuoi Piano o Jahn, Libeskind o Chipperfield e Pei, alla fine, temeva Wim Wenders «gli architetti finiranno per riempire tutti i buchi di Berlino». A forza di nuove piazze e palazzi, argomentava il regista, «il fascino così cariato» della vecchia metropoli prussiana sparirá sotto colate di nuovo cemento, vetro e acciaio.

Per fortuna, anche il regista del “Cielo sopra Berlino”, come i titubanti compagni della Spd e gli spaventati premier di Parigi o Londra, s’è sbagliato sul conto di Berlino. Crollato (per “sbaglio”) il Muro, la cittá – tanto povera ma sexy, come l’ha definita una volta per tutta il suo sindaco Klaus Wowereit – s’é dimostrata in grado di fare e disfare con estrema leggerezza il suo volto, i suoi doppi e tripli centri ed i suoi mille musei. Difficile trovare in tutta Europa un laboratorio d’architettura più effervescente di Berlino, oggi culla ed atelier di tutte le avventure e tendenze dell’arte contemporanea.

All’inizio del XIX secolo é stato Hegel a lanciare, dalle aule dell’Humboldt Universität di Berlino, l’ultimissimo grido speculativo made in Germany: una nuova filosofia, così idealista, della Storia (la determinava, e da Berlino, nientemeno che lo Spirito universale: Der Geist!). Toccò ad un altro tedesco, sempre matricola di quell’universitá, esportare in tutto il mondo l’identico prodotto storico, ma in una più taroccata veste: si chiamava Marx, Karl, e la sua entusiasmante merce Der Kommunismus.

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All’indomani del 9 novembre 1989 Bernardo Valli così annunciava sulla prima pagina di “Repubblica” il crollo del Muro comunista: «Questa mattina Berlino si è svegliata con un’aria wagneriana». E’ bello che all’aurora del 21° secolo, dopo aver sepolto nelle vetrine dei suoi musei gli idola del 20° (persino Hitler è finito, dietro una sbarra, nel nuovo museo delle cere), sbattuto al cinema i suoi pochissimi eroi (von Stauffenberg o i ragazzi della “Weisse Rose”) e innalzato monumenti alle immani catastrofi del passato, Berlino ritrovi la voglia di giocare con tutte le sue radici e tradizioni.

Ritirando su, e come niente fosse, persino il vero Centro della città, il Castello che fu degli Hohenzollern. Ma solo la “buccia”, la facciata pseudo-barocca di quell’oscuro, stregato “Schloß” da cui nacque, nell’ agosto del 1914, tutta la tragedia del secolo scorso. Perché al suo interno, nelle future sale del cosiddetto “Humboldt Forum” ci andranno – altra sublime ironia della storia! – i tesori d’arte ed artigianali delle culture primitive, africane ed australiane.

No, a 20 anni dal crollo del Muro Berlino si sta scoprendo come la cittá più anti-wagneriana d’Europa: la metropoli più sperimentale, artificiale e “fröhlich”, gaia del Vecchio Continente. Ma sí, come quella cittá che già all’alba del Novecento, dalla vecchia Torino, Nietzsche aveva sognato a capitale della futura Europa.

Un tratto questo così passeggero e “cancellabile” di Berlino che un poeta come Günter Grass aveva sempre indovinato nella sua cittá d’elezione:

«Mit den Augen meines Radiergummis gesehen

Ist Berlin eine schöne Stadt»;


«Vista con gli occhi della mia gomma da cancellare

Berlino è una bella cittá».

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