L'AltraSersale

Un nuovo modo di essere comunità. Un mondo nuovo.

La sinistra comunista ha ancora qualcosa da dire? Decisamente sì,risponde Paolo Ferrero. Perché il neoliberismo che sembrava trionfante èprecipitato nella più grave crisi della storia, e nessuno – ai piani alti – sa come uscirne. Alla crisi economica, infatti, se ne sommanoaltre: climatica, ambientale, energetica, dei rapporti sociali. E l’umanità si trova di nuovo davanti al bivio tra socialismo o barbarie.Ma l’orizzonte della scarsità delle risorse pone il problema in modo diverso, più drastico. Richiede un di più di scienza e coscienza, digiustizia ed eguaglianza. Il socialismo torna quindi con prepotenza l’unica alternativa teorica possibile.

"La domanda da cui partire è obbligata: perché è così profonda la crisi della sinistra italiana? La mia tesi di fondo è che la sinistra in Italia, più che sconfitta, si èdissolta. Le sconfitte possono dar vita a un ripensamento critico, a una ricerca degli errori per correggerli e ripartire. In Italia, invece,nella parte maggioritaria delle sinistre, dalle sconfitte si è usciti a senso unico, con la progressiva assunzione del punto di vistadell’avversario" - sostiene Paolo Ferrero in Quel che il futuro dirà di noi. Idee per uscire dal capitalismo in crisi e dalla seconda Repubblica (DeriveApprodi, 156 pp.).

Da Liberazione:

Un progetto incompiuto: Rifondazione Comunista


Che ruolo ha avuto Rifondazione comunista nella crisi della sinistra? (...). Indubbiamente quando nasce, nel 1991, rappresenta un fatto – e un fatto nuovo – nel
contesto politico di quegli anni. Nasce come Movimento per la
Rifondazione comunista. E’ l’esito di una battaglia che i
compagni e le compagne del Pci portarono avanti contro lo
scioglimento. Dopo pochi mesi confluisce nel movimento anche
Democrazia proletaria e si arriva in breve alla formazione del
Partito. L’elemento fondativo in quella fase è certamente la
reazione alla scelta di sciogliere il Pci e di considerare il
comunismo semplicemente un cumulo di macerie, da cui prendere le
distanze il più rapidamente possibile. All’origine di Rifondazione
c’è invece l’idea che il comunismo e la sua storia non siano un
ostacolo, ma un riferimento da mantenere e da sviluppare
dialetticamente.
Da qui anche il nome – Rifondazione comunista – ovvero la convinzione che sia necessario porsi nell’alveo di una
storia e nello stesso tempo praticare una netta discontinuità
rispetto agli errori (e orrori come abbiamo detto successivamente),
che in nome del comunismo sono stati commessi. Non era quindi, la
nostra, un’ipotesi banalmente «continuista», né di puro
«rifacimento » del Partito comunista. Ma era la convinzione che il
comunismo andasse rifondato a partire da una critica serrata delle
esperienze del «socialismo reale», da una rilettura di Marx e del
nesso tra libertà e giustizia. Volevamo individuare la nostra storia
nell’idea e nelle pratiche sociali di milioni e milioni di
militanti che erano venuti prima di noi. Il riferimento al comunismo
era visto come risorsa decisiva per ricostruire l’autonomia
politica e culturale delle classi lavoratrici e per proporre una
uscita dal capitalismo che, nel frattempo, andava approfondendo e non
certo mitigando il suo carattere distruttivo e barbarico (...).
Rifondazione è importante in primo luogo perché tiene aperta una
prospettiva, una speranza. Rifondazione però diventa anche un
importante punto di aggregazione per i lavoratori. Poco dopo la sua
nascita gioca una partita importante – nel ’92 e nel ’93 –
nella contestazione da sinistra degli «accordi di luglio» e delle
politiche dei governi presieduti da Amato prima, e da Ciampi poi. C’è
ancora – e viene riattivato – un legame con la base operaia.
Legame che affonda le sue radici nell’onda lunga del «sindacato
dei Consigli», quello che aveva ripreso la parola al tempo degli
«autoconvocati » e contro il decreto di Craxi del 1984. La nascita
di Rifondazione comunista non è solo un fatto politico o ideologico,
è nel concreto la ricostruzione di un partito di classe dopo anni di
sbandamenti e marginalizzazioni (...). Tant’è che ebbe dei
risultati elettorali molto significativi nelle elezioni
amministrative del ’93. A Milano, Rifondazione fece un ottimo
risultato, attorno al 10%. A Torino il Pds prese meno del 10% alle
elezioni comunali, mentre a Rifondazione andò il 14,5%. Diego
Novelli – candidato da Rifondazione e dalla Rete (una formazione
guidata da Leoluca Orlando, che potremmo definire «dipietrista»
ante litteram) – prese il 46% al primo turno e andò al
ballottaggio con il candidato del centrosinistra, Castellani, che
aveva superato di poco il 20. Novelli alla fine perse, ma solo perché
tutta la destra votò Castellani, segnalando sin dall’origine il
carattere di classe del bipolarismo coatto all’italiana.
Basterebbero questi dati positivi a testimoniare della nascita di un
partito non residuale, in grado di ridare un speranza alla sinistra.
In negativo, va invece sottolineato come venga appena sfiorato
l’aspetto teorico e analitico della «rifondazione» di un pensiero
comunista all’altezza dei tempi (...). Senza averlo teorizzato,
anche Rifondazione restò in larga parte «prigioniera» delle
esigenze imposte dall’azione politica immediata (...). Nel 1994,
l’alleanza tra Pds e Rifondazione perse le elezioni – fatte con
una legge elettorale bipolare – e Berlusconi trionfò, cadendo però
quasi subito sulla vicenda delle pensioni (...). Fu la prima prova
politica di Rifondazione in un contesto bipolare. Da molte parti
della sinistra ci veniva chiesto di votare il governo «tecnico»
presieduto da Dini, per evitare il voto immediato e il rischio di un
ritorno delle destre. La direzione nazionale del partito si
spaccò.
Una parte consistente dell’allora gruppo dirigente era favorevole all’accordo, ma si formò una nuova maggioranza
comprendente quelle che sino ad allora erano state le minoranze di
sinistra e si decise una posizione contraria. Il Prc quindi non votò
la fiducia, ma subimmo la prima scissione. Crucianelli e altri
diedero vita ai «comunisti unitari». Vendola e altri – che pure
si erano espressi per l’appoggio a Dini – rimasero nel partito.
La vicenda del governo Dini rappresenta il primo frutto avvelenato
del bipolarismo nel nostro paese. Da un lato Berlusconi, iscritto
alla P2, portatore di politiche antioperaie e fascistoidi, dall’altra
Dini, espressione di una destra tecnocratica, neoliberista e ben
decisa a tagliare la spesa sociale e i diritti dei lavoratori. In
nome dell’antifascismo si chiedeva al Prc di «baciare il rospo»,
di scegliere il meno peggio. La scelta di non votare Dini, ma di non
votargli nemmeno contro, fu il primo atto di una storia che ha
caratterizzato Rifondazione negli anni a venire. Il tentativo di
costruire uno spazio politico «indipendente», in un quadro
istituzionale fatto invece apposta per non permetterlo. Le nostre
difficoltà, le traversie, le scissioni e anche le contraddizioni,
vanno lette alla luce di questo aspetto strutturale in cui ci siamo
trovati a vivere e lottare: un sistema bipolare fatto apposta per
impedire l’esistenza alla sinistra di alternativa.
Il tentativo di Rifondazione è stato quindi qualcosa di originale rispetto a
quello della sinistra maggioritaria italiana. Mi riferisco al
tentativo di non accettare il punto di vista dell’avversario. La
sua grandezza va rintracciata nella scelta della discontinuità, in
un contesto istituzionale che ancora oggi vuole impedirla. Lo dico
perché guardo con qualche invidia ai compagni e alle compagne
tedesche. Hanno potuto costruire la Linke in un contesto
proporzionale. Un contesto in cui la sacrosanta battaglia contro la
destra non diventa per forza alleanza con un centro-sinistra
liberista. Sottolineo questo elemento perché non si capisce nulla di
Rifondazione comunista – e della sua crisi – se si astrae dal
contesto istituzionale bipolare in cui abbiamo dovuto operare. Dopo
il governo Dini si va alle elezioni del ’96. Ci si arriva
costruendo un accordo di «desistenza» con Prodi. Otteniamo un
ottimo risultato elettorale, il migliore della storia di
Rifondazione. In pratica abbiamo utilizzato le pieghe della legge
bipolare di allora per costruire un accordo che ci permettesse di
sommare i voti con l’Ulivo. Il fine era di battere le destre senza
impegnarci in un programma di governo che non condividevamo. La
convivenza divenne man mano sempre più difficile, sino alla pessima
approvazione del cosiddetto «pacchetto Treu» sul mercato del
lavoro. Consapevoli di questo progressivo slittamento a destra del
governo, nel ’97 ponemmo duramente il problema di una modifica
delle politiche economiche e sociali. In particolare chiedemmo di
approvare anche in Italia una legge sulla riduzione dell’orario di
lavoro, così come era stato fatto in Francia dal governo Jospin.
Durante la discussione sulla legge finanziaria, nel dicembre 1997, si
verificò un braccio di ferro pesantissimo sulla nostra proposta di
ridurre l’orario settimanale di lavoro a «35 ore». Ne uscimmo con
un accordo, che non venne però rispettato. Di fronte a questa
situazione non più sostenibile, si arrivò, alla fine del ’98,
alla rottura. Fu allora che si produsse un’altra scissione, assai
più consistente di quella del ’95, a opera di Cossutta e
Diliberto, che diedero vita ai Comunisti italiani. Questa rottura
rappresentò un passaggio di grande significato nella vita politica
di Rifondazione e del paese. Se la nascita del Pds aveva diviso il
popolo comunista sul piano ideologico, in questo caso la scissione
avvenne sul piano politico, e su un terreno scivolosissimo: la
rottura dell’unità contro le destre. Fu un periodo molto
difficile. Tutti i mass media dell’area progressista erano
impegnati in un processo di stampo staliniano contro Rifondazione
comunista e contro Bertinotti in particolare. Le difficoltà che
avevamo nel rapporto di massa erano aggravate dalla più infamante
delle accuse: essere conniventi con il nemico. A livello politico e
popolare si riproponeva in modo amplificato la contraddizione che
avevamo sperimentato nella vicenda Dini. Contraddizione che si
sarebbe riproposta immutabile negli anni successivi. Consentire alle
alleanze anti - Berlusconi di governare, quali che fossero le
politiche praticate, oppure opporsi? Accettare la logica del «meno
peggio», o mantenere aperta una prospettiva di trasformazione
sociale rischiando di essere accusati di far vincere la destra? E’
una contraddizione acuta che percorre tutto il nostro popolo, e
ovviamente anche il Prc. E’ la trappola del bipolarismo, che ha
logorato non solo noi ma tutta la sinistra, a partire dalla Cgil.
Naturalmente, più radicale è l’ipotesi che rappresenti – più è
distante dalla politica di un governo che magari appoggi
dall’esterno, o a cui partecipi in posizione minoritaria – più
alto è il prezzo che ti fanno pagare. E’ quindi la «trappola
bipolare» a produrre in modo strutturale la «legge del pendolo»
che tende a distruggere la sinistra italiana. Nei periodi in cui
governa la destra, matura un movimento contro di essa che chiede
l’unità di tutte le opposizioni nelle elezioni successive. Se ti
allei e governi su una posizione moderata, deludi le aspettative del
tuo popolo e contraddici le ragioni della tua esistenza. Alimenti di
fatto la percezione dell’inutilità della politica e la retorica
del «siete tutti uguali», ponendo le basi per l’estendersi
dell’egemonia sociale della destra. Se invece non fai l’accordo,
dividendo la coalizione che aveva fatto opposizione, vieni accusato
di far vincere le forze reazionarie. Una situazione disperante in cui
la sinistra viene alternativamente schiacciata o sulla propria
inefficacia (l’esperienza fatta con i governi Prodi) o sul suo
presunto avventurismo (caduta del Prodi - uno). In entrambi i casi è
tendenzialmente precluso alla sinistra di potersi sviluppare in
relazione ai movimenti di massa costruendo un profilo di alternativa.
Da questa consapevolezza nasce l’esigenza di rompere la gabbia del
bipolarismo al fine di poter ricostruire una sinistra degna di questo
nome in Italia.

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