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“La strategia più efficace per fermare un’occupazione sempre più sanguinosa è far sì che Israele diventi il bersaglio della stessa specie di movimento globale che fermò l’apartheid in Sudafrica”.
Naomi Klein


Da Il Manifesto del 11 Gennaio 2009

L’intervento della Klein arriva mentre qui da noi le polemiche, gli imbarazzi, la confusione tra antisemitismo, antisionismo, critica al governo di Israele, si uniscono alla preoccupante difficoltà della sinistra di mobilitarsi contro il massacro a Gaza.
Alla causa del boicottaggio economico contro Israele – ricorda Klein – hanno aderito in questi giorni circa 500 artisti e studiosi israeliani. Questi “hanno inviato una lettera agli ambasciatori stranieri chiedendo di sollecitare ai loro governi misure restrittive e sanzioni”. “Il boicottaggio al Sudafrica – continua citando la lettera – fu effettivo. Ma Israele viene trattato coi guanti bianchi. Questo sostegno internazionale deve cessare”. “Molti di noi – riflette ancora Klein – non riescono ancora ad abbracciare questa causa. Le ragioni sono complesse, emotive e comprensibili. Ma semplicemente non valgono abbastanza. Le sanzioni economiche sono l’arma più efficace nell’arsenale della non violenza”.
Naomi Klein passa poi ad analizzare e a confutare quattro obiezioni possibile al boicottaggio economico di Israele. La prima: “Le misure punitive allontanerebbero invece che persuadere Israele”. L’”impegno costruttivo” che il mondo adotta nei confronti di Israele – osserva qui la Klein – è tragicamente fallito”. Infatti nell’ultimo periodo “Israele ha goduto di una forte crescita delle sue relazioni diplomatiche, culturali e commerciali con una varietà di alleati”. “E’ in questo contesto che i leader israeliani hanno iniziato la loro ultima guerra, con la certezza che non avrebbero dovuto affrontare significative reazioni.”
Seconda obiezione: “Israele non è il Sudafrica”. Naomi Klein cita a questo proposito il parere di Ronnie Kastrils, un politico sudafricano. Questi ha osservato che “l’architettura di segregazione vista all’opera nella West Bank e a Gaza è infinitamente peggiore di quella dell’apartheid”.


“Il boicottaggio – aggiunge l’autrice canadese – non è un dogma, è una tattica: in un paese così piccolo e così dipendente dal commercio può funzionare”.
Terza obiezione: “Il boicottaggio restringerebbe la comunicazione e noi abbiamo bisogno di più dialogo”. Naomi Klein cita a questo proposito un’esperienza personale: racconta di aver smesso di pubblicare i suoi libri in Israele con la casa editrice Babel e di aver scelto al suo posto la più piccola e indipendente Andalus, “una casa editrice militante, profondamente convolta nel movimento contro l’occupazione, la sola casa editrice israeliana che traduce testi arabi in ebraico. “Il nostro piccolo piano di pubblicazione – racconta ancora Klein – ha richiesto decine di telefonate, scambi di email e sms tra Tel Aviv, Ramallah, Toronto, Parigi e Gaza City. Voglio dire, appena inizia una strategia di boicottaggio il dialogo cresce in maniera fortissima. L’argomento secondo il quale il boicottaggio produce una separazione è specioso data la disponibilità di tecnologia a basso costo che abbiamo tra le mani”.
L’ultima obiezione analizzata da Naomi Klein è questa: “Non sapete che molti di questi giocattoli tecnologici provengono proprio dai centri di ricerca israeliani, all’avanguardia mondiale dell’informatica”? La Klein, a questo proposito, cita il caso di Richard Ramsey, responsabile di una compagnia inglese specializzata in tecnologia per internet. Dopo l’inizio dell’assalto a Gaza, Ramsey ha rotto i rapporti con la compagnia israeliana MobileMax con questa email: “A causa dell’azione del governo israeliano degli ultimi giorni non ci riteniamo più nella posizione di fare affari con voi né con nessuna altra compagnia israeliana”. “Ramsey – spiega la Klein – ha dichiarato che la sua non è stata una decisione politica; semplicemente non voleva rischiare di perdere clienti”. E conclude Klein :“E’ stata questa sorta di freddo calcolo affaristico che ha portato molte industrie a rompere i rapporti con Sudafrica, vent’anni fa. E precisamente questo calcolo rappresenta la nostra più realistica speranza di rendere alla Palestina quella giustizia che le è stata così lungamente negata”.

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