L'AltraSersale

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L'intervento della "Coalizione" europea contro il regime di Gheddafi, al di là della necessità di rimuovere un dittatore, ha un sapore profondamente ottocentesco.La realpolitik come assioma supremo dell'azione internazionale degli stati.

 

Nel 1878, al Congresso di Berlino, e nei consessi diplomatici successivi, le potenze europee divisero e gestirono il crollo dell'impero ottomano, ma si spartirono anche le imprese coloniali. Tant'è che la Gran Bretagna coniò il suo motto "dal Capo al Cairo", la risposta alla strategia francese di conquistare i territori africani lungo la direttrice ovest-est.

 

A quel congresso trionfò un'idea estremamente westfaliana degli stati moderni, ognuno autonomo e determinato a perseguire i propri interessi, che avrebbe condotto alla deflagrazione della I Guerra Mondiale. Fu allora che cominciarono a concepirsi strumenti di delimitazione del potere dello stato: la Società delle Nazioni, il diritto di guerra, i 14 punti di Wilson (con in primis il diritto di autodeterminazione dei popoli). Questi strumenti sono poi stati perfezionati con la nascita dell'ONU, il consesso in grado di autorizzare la guerra, con le Convenzioni di Ginevra, che introducono principi di tutela nella conduzione dei conflitti, con la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

 

Dal 1948 ci siamo abituati a convivere con i principi di intollerabilità della violenza tra stati, della guerra come ultima ratio, dell'intervento umanitario. Certo le guerre che ci sono state hanno sempre avuto un quibus economico di fondo, interessi privati, mire espansionistiche, obiettivi geopolitici; ma i conflitti sono sempre stati ammantati di una giustificazione giuridica e morale internazionale: perfino la miope strategia neocon di Bush ha portato il nome di 'guerra al terrore'.

 

Probabilmente è stato il decennio neoconservatore (2000-2010) a svuotare di senso e di potenzialità le conquiste degli ultimi 60 anni. Sul piano internazionale, sul piano del diritto internazionale, l'Onu è diventato un ammennicolo dell'amministrazione americana, un consesso chiamato a ratificare lo stato delle cose.

Sul piano europeo, invece, la schiatta dei Sarkozy, dei Blair, dei Berlusconi, dei Merkel, ha notevolmente indebolito un attore come l'UE. Anzichè parlare con una sola voce ora l'Europa appare, al meglio, come uno strumento della Germania, nel peggio una casa di matti in cui ognuno parla per sè.

 

L'intervento di Francia, Gran Bretagna, Italia, Spagna e, in cabina di regia gli Usa, non risponde a nessuna delle classificazioni del dopoguerra: troppo debole l'appiglio umanitario, ancora meno il peacekeeping, insulsa la giustificazione del regime change (Gheddafi è al potere da 40 anni!)... ciò che traspare è un bieco interesse economico (neocoloniale) che in ogni contesto nazionale si riveste anche di opportunità di politica interna.

 

Per il conservatore britannico Cameron è il "battesimo del fuoco" nell'agone internazionale; per Sarkozy, al minimo storico nel gradimento, è l'occasione per coprire mediaticamente la crisi economica; per la Spagna è una questione di contratti energetici, per gli Usa, oltre che i tradizionali obiettivi strategici nel Mediterraneo è una questione di accesso agli idrocarburi - e il lavoro dietro le quinte, la critica dell'attivismo francese di queste ore, nasconde a difficoltà una contraddizione in termini per l'amministrazione Obama.

Un presidente eletto per frenare la follia della guerra del suo predecessore è alla guida di un paese che invece organizza e sostiene i movimenti di protesta anti Ben Alì, anti Mubarak; e lo fa in modo segreto e sotterraneo, come le operazioni dei contras in America Latina o il piano Pinochet, architettati da un maestro della realpolitik come Kissinger. L'afflato di novità, di cambiamento che Obama incarnava crolla miseramente davanti al bieco interesse economico ed energetico del capitale occidentale. La guerra è il fallimento della politica.

 

Per l'Italia invece il discorso è come al solito ridicolo: la posizione dell'Italia è ambigua, nè apertamente contro Gheddafi ma neanche perdere il treno dei vincitori. La strategia italiana appare dettata da una contraddizione politico-economica:

  • sul piano strettamente economico, il crollo di Gheddafi è un serio pericolo per i nostri istituti bancari (Unicredit), per le aziende leader del comparto militare (Finmeccanica), del comparto energetico (Eni), del settore edilizio; settori nei quali la presenza di capitale libico di stretta gestione del Colonnello è consizione sufficiente per operare da deterrente ad un intervento convinto dell'Italia. Gheddafi può chiudere in qualsisasi momento i rubinetti del gas e dei dollari coi quali controlla la nostra economia; per di più un cambio di regime non assicura all'Italia gli attuali profitti per le sue imprese: l'attivismo della Francia rischia di scalzarci come attore economico principale in Libia.
  • sul piano politico, il nostro governo non ha la statura per imporsi nello scacchiere europeo per guidare le operazioni come fece invece il governo Prodi nel 2006 in Libano. Allora fu l'Italia a prendere una posizione chiara e determinata tra libanesi e israeliani e a guidare la coalizione sotto il vessillo dell'ONU. Il baciamano di Berlusconi ha enormemente minato la credibilità del nostro paese; il patto di amicizia Italia-Libia ha poi intaccato la sicurezza delle coste italiane: l'enorme flusso di capitali e di armi come contropartita alle richieste della Lega affinchè Gheddafi fermasse i flussi migratori ha reso l'Italia dipendente dal regime di Tripoli. Cosa succede ora che non abbiamo il mastino sull'uscio di casa? L'Italia appare oggi più preoccupata dai barconi che dai missili del colonnello.
  • sul piano diplomatico, che dire delle esternazioni del ministrino Frattini... l'Italia si è semplicemente accodata al tardivo e ingiustificabile attivismo francese: l'Italia non ha lavorato diplomaticamente ad una risoluzione ONU più vincolante e leggittimante, non ha lavorato sul piano europeo per sanare la frattura tra Francia e Germania (che infatti si è astenuta sull'intervento e non fornirà aiuti sostanziali), non si è nemmeno impegnata sul piano strategico per garantirsi un ruolo leader nella Coalizione. L'Italia è oggi solo una portaerei franco-americana parcheggiata al largo della Libia.

Rimettendo insieme questo puzzle viene fuori un quadro d'insieme che assomiglia pesantemente ad un conciliabolo ottocentesco, con governi che non fanno nulla per nascondere le proprie beghe di quartiere, che si lanciano in imprese disastrose, che rinunciano a qualsiasi slancio politico.

Il problema sta proprio qui: nella politica.

La via d'uscita dalla post-modernità, iniziata l'11 settembre, è un salto carpiato nel passato. Anzichè costruire strumenti di intervento sovranazionali ci si rinchiude nel fortino dei propri confini. E intanto stati canaglia ed economie canaglie prosperano felici e giocano il loro Risiko!

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