L'AltraSersale

Un nuovo modo di essere comunità. Un mondo nuovo.

Su L'Espresso di venerdì scorso è comparso un articolo di Michele Sasso e Francesca Sironi dal titolo "Chi specula sui profughi". Ebbene, inutile dire che nella denuncia dell'articolo non trovano spazio le esperienze più o meno positive, quelle c.d. normali di gestione dei Centri di Accoglienza. Non vi rientrano nemmeno i carichi umani, le ricchezze e le relazioni che si sviluppano vivendo nei centri di accoglienza.

Io ho avuto la fortuna di vivere e lavorare in uno di questi centri, di conoscere un sacco di richiedenti asilo provenienti dalla Libia. Sono stato un anno a contatto con uomini e donne che cercano di tracciare il proprio destino. Molti di loro non volevano neanche venire in Italia, sono solo sfuggiti alle bombe della Nato e ai militari di Gheddafi.

Ho lavorato per una cooperativa in due centri di accoglienza, rimanendo per mesi senza stipendio, sopportando carichi di lavoro a volte pressanti. Eppure sono contento di avere avuto l'opportunità di lavorare per questa cooperativa.

Sono contento perché ho avuto conferma che le migrazioni ridefiniscono in continuazione il mondo. E in particolare il nostro paese, le sue organizzazioni, la sua cultura. Sono contento perché ho compreso effettivamente la stupidità dei preconcetti del razzismo (solo un'assoluta ignoranza delle dinamiche umane), ho rimodulato il mio anti-razzismo (da propaggine ideologica a pratica concreta e quotidiana).

Ho compreso che questo paese non è assolutamente pronto all'integrazione. Abbiamo accumulato troppi anni di xenofobia leghista ma anche troppi incopetenti nei ruoli più delicati. Il mio lavoro mi ha permesso di osservare da vicino quanto siamo inadeguati.

 

Pubblico ora ciò che avevo scritto qualche tempo fa, alla luce di quanto è emerso nel suddetto articolo.

 

IN PRINCIPIO ERA L'ACCOGLIENZA

L'accoglienza è una risposta ad un bisogno organizzativo. Quando qualcuno giunge sulle nostre coste – sia esso migrante, turista, o invasore – si può scegliere due modalità di relazione: conflitto o accoglienza. L'accoglienza consiste semplicemente nel mettere l'invasore/migrante/turista a proprio agio, per fugare il campo da qualsiasi malinteso e instaurare un rapporto cooperativo, fondamento di ogni forma di convivenza.

L'introduzione era necessaria. Sono un operatore sociale di uno dei tanti centri di accoglienza istituiti per far fronte alla cosiddetta 'emergenza nord Africa' (perché da noi qualcosa assume rilevanza se è emergenza, anche se spesso è normale che barconi carichi di migranti si riversino sulle nostre spiagge!).

Come dice la parola stessa, il mio ruolo è quello di aiutare gli ospiti dei nostri centri ad 'usufruire' dell'accoglienza dovuta ai richiedenti asilo sfuggiti alla guerra in Libia dello scorso anno.

E' un lavoro che faccio volentieri anche se a volte ti satura il sistema nervoso, sovraccaricandolo di emozioni, rabbia, frustrazioni, delusioni – naturalmente tutto ciò è connesso al rapporto con le persone, al di là del colore della loro pelle.

Ma mi arrabbio. Perché le difficoltà maggiori non stanno tanto nelle differenze linguistiche o culturali con gli ospiti, quanto nello stato di perenne nervosismo in cui si vive nei centri di accoglienza. Un nervosismo dovuto principalmente a carenze e inefficienze, bizantinismi, menefreghismi del 'Sistema Accoglienza' italiano, alle debolezze dell'amministrazione italiana, alle deficienze professionali dei responsabili di pubblica sicurezza, sanitari, dei servizi sociali, l'approssimazione dei servizi privati in Calabria e anche l'avventurismo economico delle cooperative, la scarsa professionalità e formazione di noi operatori e lo stato psico-fisico degli ospiti.

Mi arrabbio. Perché cerco di dare il meglio nel mio lavoro, ho rispolverato il mio francese e migliorato il mio inglese, ho appreso qualche parola di arabo, cerco di essere psicologo e sanitario. Ma poi tutto crolla quando accompagno gli ospiti in ospedale, quando chiamo la polizia per una rissa o quando aspettiamo mesi e mesi per una convocazione in Commissione Territoriale, per i risultati, per i documenti.

Mi arrabbio. Perché nessuno, né datori di lavoro né ASL, mi ha informato che potevo fare il vaccino anti TBC, perché il medico è troppo impegnato ad accaparrarsi risorse economiche per gestire l'ambulatorio: è sempre al telefono e, dopo che ho aspettato due ore davanti alla sua porta con un ospite (sempre ammettendo di non aver trovato l'avviso che l'ambulatorio rimarrà chiuso per una settimana), mi scrive due righe di impegnativa o mi rimanda a visita specialistica. E intanto il pelo incarnito del mio ospite diventa per lui un male insormontabile perché il medico non lo ha “neanche toccato”, l'attesa almeno mensile prima della visita o della radiografia diventa una lamentosa domanda quotidiana: “ospidale quando?”. E l'ospite si innervosisce e scarica sugli altri e sugli operatori.

Mi arrabbio. Perché quando scoppia una rissa i carabinieri si presentano dopo almeno 90 minuti. E poi procedono a pacche sulle spalle, a cenni del tipo “fai il bravo” all'ospite che ha appena devastato la mensa del centro o picchiato a sangue il compagno.

All'università ho imparato che allo Stato compete il monopolio dell'uso della forza e la divisa è il deterrente al suo uso indiscriminato. Ebbene gli ospiti, abituati alle polizie africane dal manganello facile, sorridono dei nostri poliziotti con la panza che danno pacche sulle spalle. Ciò contribuisce a ingenerare il teorema per cui basta un po' di violenza per ottenere tutto dall'operatore, per evitare le regole e gli orari del centro. E l'ospite nervoso aggredisce e devasta senza la minima cognizione delle regole di convivenza, che a volte bisognerebbe imporre anche con l'ausilio delle autorità.

E mi arrabbio. Perchè gli ospiti vivono in cattività da oltre un anno: mangiano, dormono e si lavano in attesa della convocazione in Commissione per la loro richiesta d'asilo. Dopo mangiano, dormono e si lavano per almeno tre mesi in attesa dei risultati; dopo mangiano, dormono in attesa del ricorso in appello, per i permessi di soggiorno, per i documenti e non si spiegano come mai sul proprio documento c'è la foto del loro amico, perché i loro nomi sono errati, perché l'ufficio è chiuso per 'malattia' del poliziotto in Questura, perché il dipendente comunale li rimbalza non sapendo bene le procedure per i loro documenti, perché gli avvocati stanno chiusi nei loro studi e i giudici non decidono subito. Perché il plafond quindicinale che gli spetta non è mai puntuale, perché le carte prepagate non sono ricaricate, perché chiediamo che rispettino le regole quando noi per primi non rispettiamo le scadenze che diamo.

E intanto monta il nervosismo nei campi, poiché senza quel piccolo plafond non possono chiamare a casa, senza quello straccio di documento non possono andar via dai centri, senza la risposta della Commissione il loro progetto migratorio non può nemmeno cominciare. E allora subentra la rabbia e la frustrazione di chi ha perso tutto e rischiato la vita, per morire di inedia in un centro di accoglienza.

In queste condizioni l'equazione è elementare: se questa è l'accoglienza italiana, allora Italia no bono! Se tu sei l'operatore che deve offrire questa accoglienza, allora operatore no bono!

In altri termini se chi dovrebbe fornirmi gli elementi fondamentali per l'accoglienza – cioè un ristoro, la cura e un riconoscimento (leggi documento) – non è in grado di farlo allora a cosa serve stare nei centri. E a cosa serve rimanere passivi nei centri?

Ogni volta che succede qualcosa di violento nel centro è questa la domanda a cui cerco di dare una risposta: se fossi al loro posto anche io sarei incazzato nero, e vorrei sfasciare tutto, vorrei urlare al primo italiano che ho davanti, “sapete solo arrangiarvi”.

Arrangiamento è il sinonimo che le istituzioni italiane hanno coniato per dare attuazione alla Convenzione di Ginevra sul diritto di asilo. Una serie infinita di norme e pratiche securitarie, protocolli inapplicabili e disciplinari amministrativi che appesantiscono la burocrazia italiana; ospedali al collasso e medici che non conoscono neanche l'inglese, assenteisti, vagabondi del pubblico, truffatori e parassiti del privato, quelli che hanno fiutato nell'accoglienza il loro bisness e se ne fregano se la loro scarsa professionalità scatena risse.

Arrangiamento era l'arte degli italiani per integrarsi lungo le rotte della loro migrazione e ora è sinonimo di politiche di accoglienza e di integrazione. E ovviamente tutte le criticità di questo tipo di accoglienza si scaricano nel punto di incontro tra migrante e paese d'accoglienza: l'operatore.

Perchè è all'operatore che l'ospite si rivolge quando ha fame, quando ha un dolore, ha un'esigenza. È come se l'operatore diventasse un padre o una madre nei confronti di persone i cui genitori non possono far nulla, perché l'operatore sfama, cura, aiuta. Il processo di identificazione operatore/genitore comincia fin da subito, ma poi si sviluppa quanto più l'ospite è trattenuto nel centro. E il rapporto diventa complesso, psicologicamente complesso. Prima vieni percepito come madre o padre perché dai da mangiare e proteggi dalle malattie, poi, quasi come i bambini, l'ospite diventa capriccioso, pretestuoso, ti sovraccarica di richieste, anche banali e inutili, che devi assecondare (impegnando il tuo tempo privato) o che devi contrastare innalzando il livello di conflitto. E finisci per dire si all'uso della tua macchina per accompagnare gli ospiti al mercato, a portare il tuo pc per fargli usare skype, a elargire sigarette.

Questo succede quando hai i mezzi per assecondare richieste, diventando sempre più coinvolto nel lavoro. Quando invece non hai i mezzi, ti stringi nelle spalle.

Commissione quando?”, ti chiedono. “Non lo so”.

“Risultato quando?”, “Non lo so”.

“Documenti quando?”, “Non lo so”.

 

Perché non sai effettivamente se e quando i commissari convocheranno, non sai se effettivamente il dottore è rientrato dall'ultimo convegno sulla medicina dei migranti, non sai se il poliziotto ha sbagliato i documenti e le foto. Non sai se la ricevitoria ha accreditato i soldi. Non sai, non puoi. Ed è frustrante, perché è frustrante per tutti i genitori dover rispondere così ai propri figli.

L'impossibilità di fornire una risposta. La possibilità che questo indefinito diventi il marchio per un gruppo di persone che sta semplicemente chiedendo di entrare, di provare, di salvarsi dall'indefinito quotidiano della precarietà della vita nel Terzo Mondo.

Questo modo di gestire l'emergenza, in modo tipicamente italiano, fa dell'Accoglienza una sorta di limbo in cui rinchiudere alcuni soggetti che il diritto internazionale classifica come richiedenti asilo politico, ma che per lo stato italiano e per gli italiani sono poco meno che extracomunitari, poco più che clandestini.

Sempre all'università, ho imparato che la qualità delle organizzazioni, qualunque esse siano, si misura col livello della loro responsiveness, ovvero della capacità di rispondere responsabilmente agli imput.

I migranti in genere saturano di richieste i sistemi organizzativi delle società di arrivo, ne scardinano i principi organizzativi. Ma ci sono organizzazioni che da questi imput ne traggono linfa per migliorarsi e basta. L'Italia invece ha semplicemente deciso di farsi travolgere dagli imput esternalizzando i costi dell'accoglienza a organizzazioni periferiche e private, le quali a loro volta scaricano sui loro impiegati. Pertanto l'accoglienza si riduce solo ed esclusivamente al buon senso, al volontariato, degli operatori, a qualche infermiere volenteroso, a qualche avvocato militante che prendono a cuore qualche storia migrante.

Oltre a non trovare una risposta alla domanda “a cosa serve stare nei centri di accoglienza?”, c'è un'altra questione che mi assilla, ma non come operatore, come italiano: “che cosa pretendiamo da questi aspiranti cittadini italiani?”.

È una domanda che investe una più generale idea di società, ma che possiamo limitare al qualunquismo di noi italiani: gli stranieri possono stare qui purché rispettino le nostre regole. E se siamo per primi noi a non riuscire a rispettare una scadenza, cosa possiamo pretendere da chi non è abituato alle regole?

E cosa dobbiamo chiedere a chi è chiamato a farle rispettare queste benedette regole? Quanto potrebbe essere reso più facile, e allo stesso tempo qualitativamente migliore, il nostro lavoro? Quanto potremmo fare per i nostri ospiti se non dovessimo rincorrere i carabinieri per un minimo di attenzione alla sicurezza dei centri; se non dovessimo perdere i giorni davanti alla porta del dottore; i mesi in questura per un risultato. Quanto ascolto potremmo prestare a esseri umani soli e in fuga se non dovessimo spendere il nostro orario di lavoro a spiegare il perché delle manchevolezze delle istituzioni, degli operatori economici, della nostra stessa cooperativa.

E quanto potremmo sentirci umanamente gratificati e quanto potremmo arricchirci dal contatto con i migranti, in termini umani e culturali, se non fossimo costretti a scappare a fine turno perché in quindici vogliono una ricarica, un passaggio, una risposta.

Per fortuna che in questi centri non si maneggia semplicemente una merce, ma si muovono uomini e donne, con il loro carico di speranze e di sofferenze, con il loro entusiasmo contagioso e il loro sorriso. Perché le migrazioni non sono semplicemente il risultato della povertà ma il prodotto del desiderio.

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