L'AltraSersale

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Democrazia in crisi. La terapia si chiama antifascismo.


Lo sappiamo, lo sappiamo... siamo noiosi, pedanti, con sta fissa di Berlusconi e del Berlusconismo. Ossessionati dalla politica. Purtroppo non ne possiamo fare a meno! perciò beccateve st'altro pippone...
Paul Ginzborg, noto storico inglese che insegna all'università di Firenze, partecipando alla Biennale democrazia a Torino ha sollevato alcuni interessanti interrogativi sulla crisi della democrazia e su come rinnovarla attraverso la partecipazione dal basso, la rivitalizzazione dei partiti e una nuova coscienza civica di popolo. Ve lo riproponiamo di seguito.

Tratto da Liberazione del 22 aprile 2009:

Tonino Bucci

Paul Ginsborg sarà tra gli ospiti della Biennale democrazia che si inaugura oggi a Torino con un discorso del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitiano. Cinque giorni di dibattiti e incontri organizzati da Gustavo Zagrebelsky. Ginsborg - storico inglese, docente all'università di Firenze - interverrà in tre occasioni: in un dibattito sul libro di Norberto Bobbio Il futuro della democrazia uscito giusto venticinque anni fa, in una presentazione "teatrale" di un dialogo immaginario tra Marx e John Stuart Mill e, infine, in un incontro con gli studenti torinesi domenica mattina. Si discute molto del rapporto tra democrazia e informazione. C'è stato il caso di Vauro sospeso per una vignetta. L'informazione è un punto dolente e non solo per la concentrazione della proprietà dei media, per l'accentramento di giornali e tv in poche mani, ma anche perché la politica oggi passa per l'uso della comunicazione, come dimostra in questi giorni un certo utilizzo retorico della sciagura del terremoto. Dobbiamo aggiornare la nostra idea di democrazia e studiare di più come si fa informazione? E' un problema anche culturale. Quel che è mancato in questi anni è un'analisi profonda del fenomeno della comunicazione. Su questo versante sono in ritardo anche i movimenti della società civile. Mi spiego. Se parliamo in questo paese di berlusconismo dobbiamo tornare al 1984, cioè proprio in coincidenza dell'uscita del saggio di Bobbio, Il futuro della democrazia . In quell'anno Berlusconi prende possesso di tutti e tre i principali canali della televisione commerciale e da quella fortezza riuscirà a cambiare la cultura di massa degli italiani. Sfortunatamente su questo processo lungo di acculturamento non abbiamo studi, abbiamo solo vaghi riferimenti, spesso retorici. Non abbiamo ancora un'idea precisa di cosa avviene quando una famiglia italiana si siede davanti a una tv berlusconiana. Esistono pochissimi studi, in fondo, sul ruolo, sul peso, sugli effetti di una presenza schiacciante di certi programmi - reality, varietà, chat show ecc. invece di altri - documentari, discussioni approfondite, programmi sul resto del mondo. Una volta nei classici della democrazia, in Tocqueville ad esempio, si parlava della necessità che l'informazione fosse libera, cioè i giornali. Per noi la questione della libertà culturale è diventata molto più complessa perché passa attraverso il meccanismo televisivo. Non ci rendiamo conto come il berlusconismo abbia cambiato la mentalità, le aspettative degli italiani, il loro modo di vedere il rapporto tra famiglia e società. Per concludere, nell'84 Bobbio era abbastanza ottimista, pensava che il mondo stava entrando nell'era della democrazia, per quanto imperfetta. Per l'Italia, notava non solo la democratizzazione dello stato, ma anche quella della società. Proprio in quell'anno, invece, inizia un processo inverso, prende corpo un lavorìo culturale di massa che determina in non piccola parte le debolezze della democrazia italiana di oggi.
Una lunga analfabetizzazione del senso comune che ha eroso i valori
civili della nostra convivenza. Questo processo nella cultura di massa, ad esempio, ha portato a ritenere l'antifascismo una categoria residuale. Il fascismo non c'è più, quindi anche l'antifascismo non ha più motivo d'essere: questo è il clichè. Eppure l'antifascismo non è solo una posizione "contro", esprime anche una filosofia "positiva", una visione politico-culturale dotata di contenuti propri. O no?
Certo. L'antifascismo ha una grandissima attualità. Sono sulla stessa posizione dell'Anpi. Non si può omologare tutto e fare finta che i combattenti di Salò sono uguali ai partigiani. Gli uni combattevano per la prosecuzione delle dittature e dell'Olocausto, gli altri combattevano per la libertà. La categoria dell'antifascismo è preziosa non solo per l'Italia, ma anche per gli altri paesi europei, a cominciare dall'Inghilterra. La democrazia si basa sull'antifascismo. Altro che categoria residuale. Su questo dovrebbe esserci consenso generale.

A parole nessuno attacca frontalmente il 25 aprile, nessuno contesta il valore della Costituzione nata dall'antifascismo. Ma è come se ci fosse un processo sotterraneo di svuotamento della nostra democrazia che lascia inalterata la lettera della carta costituzionale mirando a modificare nella sostanza i rapporti tra il potere politico e quello giudiziario o tra governo e parlamento o tra Stato e regioni. Se andiamo avanti così della democrazia resterà un guscio vuoto. Quando il capo del governo dichiara che deve pensarci su se andare o meno alle celebrazioni il risultato è che si delegittima la Resistenza. Non crede?
L'attuale maggioranza di governo si comporta come un uccello rapace che col suo becco affilato prova a rodere nei punti deboli. Ma potrebbe indietreggiare se solo incontrasse resistenze, come è avvenuto nel piano casa o nel caso Vauro al quale va tutta la mia solidarietà. Bisogna opporre resistenza. Di qui non passerete. Dobbiamo attrezzarci per un lungo, instancabile lavoro di resistenza. Questa biennale organizzata da Zagrebelsky mi sembra un ottimo esempio: la democrazia nasce dall'abitudine all'ascolto e alla discussione. Rompiamo il silenzio.

Dal berlusconismo al distacco dalla vita politica del paese il passo è breve. Come possiamo parlare di democrazia in un paese affetto da sfiducia nella politica, in una società che sente la politica come qualcosa di distante? Si parla di bipolarismo o di bipartitismo, sono nati nuovi partiti, il Pd e la Pdl, però questa politica resta in mano alle oligarchie e questi nuovi partiti hanno tutta l'apparenza d'essere creazioni di vertice, molto lontani dai partiti novecenteschi. Non è una questione democratica urgente il fatto che tanti soggetti sociali non hanno più rappresentanza politica?
Sono molto d'accordo. Oggi esiste una crisi della rappresentanza. Nel
mio piccolo libro La democrazia che non c'è avevo cominciato proprio con questa crisi che non è solo italiana, di separatezza tra ceto politico e società. Si sente anche in Gran Bretagna e in Francia, in tutta Europa. Ci sono meno persone che vanno a votare, si percepisce una sfiducia nelle istituzioni. E' un grosso problema. Un modo per affrontarlo è suscitare un processo di democrazia partecipativa, deliberativa, diretta. Possiamo utilizzare l'aggettivo che vogliamo, l'importante è fare qualcosa per riavvicinare i cittadini alla politica. Questa sperimentazione che prende forme diverse è molto importante, un segnale positivo della democrazia europea. Certo, ci sono critiche da fare. I politici spesso usano certe forme di consultazione popolare come un pretesto per fingere una democrazia partecipata. Ma c'è un movimento reale di richiesta di nuove forme che si vede in tutta Europa. Su una cosa andrei cauto: sulla natura dei partiti novecenteschi. Non idealizzerei quel passato. In gran parte i partiti novecenteschi non erano democratici. Non avevano un controllo del basso verso l'alto, se non in maniera molto approssimativa. Adesso siccome in Italia abbiamo perso il partito comunista, il partito socialista e la democrazia cristiana ci sentiamo orfani dei partiti. Si sente spesso questo discorso, "ci mancano i partiti di massa". Ma non è del tutto esatto dire che rappresentavano bene grandi masse perché, in molti casi, il loro modo di comportarsi era lontanissimo da un ideale di democrazia interna. Pensiamo a certe patologie presenti nella Dc. Da storico dell'Italia repubblicani dico che bisogna andare molto cauti nell'idealizzare gli anni '50.

Resta oggi il problema se questa separazione tra politica e società si possa risolvere creando dall'alto nuovi partiti. Non sembra che da questo lato si vedano passi in avanti?
Non lo so. Io sono fortemente in favore non di un sistema proporzionale assoluto, ma di una proporzionalità nel sistema elettorale. Trovo un alleato in John Stuart Mill, grande liberale che dice la proporzionalità è fondamento della democrazia. Non mi dispiace avere partiti grandi e anche nuovi, a condizione però che siano ben connessi con la società e ben più democratici di quanto non fossero in passato. Oggi il problema della democrazia riguarda non solo le leggi formali degli Stati e dei parlamenti, ma le connessioni tra cittadino e stato a tutti i suoi livelli.

Quale che sia l'idea sui partiti del passato, è indubbio che quelli di
oggi hanno fatto propria la politica della personalizzazione. Tutto passa per i leader e il loro rapporto diretto con elettori senza controlli e passaggi intermedi. Non crede?
La politica si personalizza e diventa sempre più affare esclusivo di professionisti. Inventare una politica alla misura delle nostre possibilità di cittadini di essere coinvolti è un'altra delle sfide delle democrazie. E' possibile una politica che non sia solo spettacolo, professionalizzazione, carisma? I ritmi della politica oggi sono massacranti. Come possono contribuire i cittadini a una sfera politica organizzata in questo modo? Sono esclusi in partenza. Dobbiamo depotenziare la politica, ridurre questa sua forza di divorare il tempo di chi ci sta dentro e di separare i suoi
professionisti di palazzo dalla società. Una volta arrivati in parlamento non li vediamo più.

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